LA MALVASIA, UN VINO NEL MITO
di Livio Pertrini, agronomo
Parlare di Malvasia per un bosano equivale a raccontare di uno dei simboli della propria appartenenza collettiva e della propria identità culturale, un impulso che nasce dall’aver vissuto e respirato quei luoghi, Bosa, Modolo, Magomadas, Tresnuraghes, dove questo vino accompagna i momenti salienti che scandiscono la vita di ogni essere umano, le feste, i lutti, i momenti di passaggio, gli eventi felici e quelli tristi che si saldano nella memoria e nella coscienza individuale e sono traducibili con un’unica parola: emozioni. Viene da pensare per questo che il fattore emozionale sia tale da tramutare la nostra visione di questo prodotto enologico in un fatto personale, avulso da un riscontro oggettivo tecnico-scientifico che vada oltre alla dimensione locale. La storia della Malvasia tocca tutti i temi fondamentali della vitivinicoltura contemporanea: sostenibilità delle tecniche di gestione, paesaggio, identità, enologia, storia, archeologia, comunicazione, marketing, il racconto del vino e del suo territorio. Il vino Malvasia ha una potenza evocativa ed immaginifica senza eguali, fatta di corsi e ricorsi storici che attraversano un arco temporale di oltre tremila anni di civiltà, che ne fanno un vino senza tempo, un vino nel mito.
Mito che affonda le sue radici nell’età antica quando popoli di naviganti nuragici, greci, fenici, hanno costruito rapporti commerciali nel bacino del Mediterraneo, ed oltre, ed il vino è un attore protagonista di questi scambi fatti di viaggi avventurosi, spesso tragici, che accompagnano il cammino della vite domestica e della sua diffusione da oriente a occidente. Il mito greco narra il ricordo di questi eventi nei viaggi di ritorno, i nostoi. L’astuzia di Ulisse, che offre il vino greco prodotto dalla vite domestica, quindi più alcolico, ingannando il ciclope, abituato a bere il vino fatto dall’uva selvatica, usanza diffusa in quell’epoca presso le popolazioni mediterranee, va aldilà dell’espediente narrativo omerico e ci racconta le storie di ritorno di antichi mercanti venuti in contatto con le popolazioni, spesso ostili, indigene delle aree portuali strategiche, posizionate sulle rotte commerciali mediterranee dell’antichità.
Importanti aree archeologiche della Sardegna hanno restituito alla storia vinaccioli archeologici di vite selvatica; ancora oggi in alcune zone dell’isola si produce il vino dall’uva selvatica secondo un rituale millenario. Il sito archeologico di Sa Osa, a Cabras (Oristano), ha restituito alla luce vinaccioli archeologici di vite selvatica e di vite domestica; i vinaccioli archeologici di vite domestica ritrovati nel sito di Sa Osa, (datati 1.266-1.115 A.C., nel pozzo N), attestano che il popolo nuragico coltivava la vite domestica già nel Bronzo Recente. Specifiche analisi preliminari di tipo morfometrico svolte per caratterizzare i vinaccioli di vite domestica, ritrovati nel sito di Sa Osa, indicano che tali semi siano riferibili ad uve bianche prossime a cultivar a bacca bianca autoctone della Sardegna, del gruppo delle Vernacce e della Malvasia. Sebbene, al momento, non sia possibile stabilire se tali coltivazioni viticole siano state introdotte o meno, mediante i contatti commerciali con le popolazioni orientali, resta imponente l’attualità e la centralità del tema, riguardante l’origine storica dei vitigni ed il suo forte potere evocativo, utilizzabile mediante precise e specifiche strategie di comunicazione. La sorprendente sinonimia genetica delle Malvasie coltivate a Bosa (Sardegna), Cagliari (Sardegna), Sitges (Spagna), Tenerife (Isole Canarie), Madera (Portogallo), Gerace (Calabria), Dubrovnik (Croazia), Salina e Lipari (Isole Eolie), attesta che lo stesso identico vitigno è coltivato, anche con lo stesso nome, Malvasia, in siti, distanti fra loro diverse migliaia di chilometri, ubicati in aree costiere storicamente importanti del Mediterraneo, suggerendo che tale vitigno si sia diffuso via mare in epoche passate, approdando su isole e porti, “un vino in ogni porto”, usando le parole di Attilio Scienza. Gli studi genetici confermano che tale genotipo sia un vitigno molto antico, rendendo difficile stabilire con certezza l’epoca di introduzione nei diversi areali di coltivazione, paradosso dei vitigni autoctoni, trattandosi forse delle cultivar più antiche diffuse dai Veneziani nel Medioevo o forse già preesistenti in epoche anteriori. È certamente nel Medioevo che la storia della Malvasia vive il suo apice, intrecciata con l’epopea della Repubblica di Venezia, civiltà marinara e mercantile per antonomasia e tra le più importanti nella storia dell’umanità. I mercanti Veneziani, con un’azione degna delle più moderne strategie commerciali, costruiscono per primi attorno a questo tipo di vino, un vero e proprio sistema economico-commerciale durato vari secoli, con l’invenzione di un nome intrigante, il nome Malvasia, che evoca e richiama nell’immaginario del tempo il fascino dei luoghi della cultura e della civiltà greca, il vino originario delle isole greche dell’Egeo, dell’isola di Monembasia, il porto con una sola entrata, il vino del mito, creando l’immagine di un prodotto di lusso, un vino di elite, riservato alle aristocrazie europee.
Anche a Bosa l’introduzione del vitigno non è attestabile con certezza ad un preciso periodo storico, ma è certo e documentato che nella prima metà del 1800, il territorio di Bosa e della Planargia ha espresso una grande viticoltura, che è descritta nei numeri riportati dalle fonti dell’epoca: 1.000 vigneti produttivi, 3.150.000 litri di mosto prodotti annualmente, 6.300 botti, 10 alambicchi per produzione di acquavite, 5 botteghe di bottai, 20 botteghe di vinai, esportazioni in paesi esteri. Riproporre il paesaggio vitato della Planargia ottocentesca, ricostruirlo e riqualificarlo, vorrebbe dire riappropriarsi di una dimensione produttiva viticola competitiva ed allo stesso tempo restituire e rafforzare l’identità dei luoghi. Il concetto di identità e riconoscibilità del vino non può essere tralasciato nella tecnica enologica e la microbiologia consente di sviluppare, innovare e standardizzare processi di vinificazione condotti da lieviti indigeni, caratterizzando ulteriormente il prodotto Malvasia con l’uso di microorganismi selezionati nel territorio.
Quindi viticoltura, enologia, microbiologia, genetica, storia e archeobotanica, comunicazione, tutela del territorio e del paesaggio sono le strade che si aprono dinnanzi al futuro della Malvasia di Bosa, vino che rappresenta un importante attrattore economico della Planargia, territorio che può emergere dal suo ormai secolare senso di isolamento, aprendosi al mondo per far conoscere con il vino questi luoghi stupendi e facendo ripartire quei viaggi avventurosi, fatti di scambi e scoperte che il passato ci insegna e che sono insiti nella natura di questi vini e nella storia di tutte le Malvasie prodotte da enologi e viticoltori coraggiosi.
da Viticoltura in Planargia, Aonia Edizioni, 2018
